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  • Immagine del redattoreFabio Salvati

LA PARTICINA di Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini


Possiamo in un certo senso dire che siamo dalle parti del metateatro: il teatro che rappresenta se stesso, o come si preferisce di solito dire, il teatro nel teatro, tipicità dove maestri riconosciuti sono Pirandello e lo stesso Shakespeare (e forse prima ancora Plauto).

Ma in questo interessantissimo lavoro che apre la stagione del TeatrosophiA, il suo autore Giuseppe Manfridi tenta un esperimento che può definirsi teatro sul teatro. Tutto sembra partire da una urgenza didascalica per gli spettatori: guidarli nell’esplorazione di una fenomenologia abbastanza ricorrente nell’esperienza teatrale, specie in quella dove i personaggi –come in Giulietta e Romeo- si contano a decine. Si parla di colui che nel gergo teatrale viene chiamato tinca, una sorta di vittima sacrificale nell’organico dei personaggi cui l’autore non attribuisce altro ruolo che quello di portare avanti l’azione. Per lui non è richiesta una particolare elaborazione tridimensionale, può rimanere tranquillamente una figura di carta, sul fondale, poche le battute (non di rado destinate alla sforbiciata in sede di rappresentazione), immune dal prestigio della memorizzazione.

L’azione, dopo l’introduzione che l’Autore illustra nel foyer, si sposta nella sala vera e propria, dove il personaggio (interpretato perfettamente dal giovane Lorenzo Manfridi) vive in una sorta di altrove, figurato da un fondale di libri, al riparo nel perimetro della sua quarta parete, laddove si infiltra, rompendola, lo stesso Giuseppe Manfridi, nella necessità di andare a esplorarne riflessioni e umori all’interno di quel suo appartarsi insoddisfatto.

Nel gioco della interlocuzione diretta (con una continua strizzata d’occhio al pubblico da parte dell’intervistatore, a tenere alta la cifra divertente della situazione) l’attore sulla scena si anima ed esprime al suo interlocutore tutta la sua scontenta condizione di personaggio trascurato, ma necessario, anzi indispensabile, al volgere scritto e quindi inevitabile, del dramma shakespeariano.

E l’intervista diventa una sorta di risarcimento postumo per quel personaggio, del quale scopriamo l’attitudine a rintracciare colleghi di sventura in altri prestigiosi copioni teatrali, la rivendicazione della sua infungibilità all’interno della partitura, l’aspirazione all’emancipazione dalla marginalità cui il Grande Bardo lo ha condannato per sempre, l’inconsapevole –ma scrupoloso- riguardo al sottotesto del suo agire silenzioso.

Così, lentamente la cifra metaforica della pièce emerge in tutta la sua forza nelle fuggevoli, ma profonde, provviste che quel serrato tavolo dialettico sulla scena riesce a generare. E il riverbero per la platea diventa riflessione esistenzialista sulla condizione umana e sull’immutabile ciclo vitale che il destino scrive per ciascuno di noi. E forse, come accade alla fine per il nostro personaggio, possiamo perfino scoprirci a volte protagonisti.

Un plauso a Giuseppe Manfridi, giustamente considerato uno dei massimi autori contemporanei, ma anche alla regia preziosa e discreta di Claudio Boccaccini, maestro nel creare –insieme alla suggestiva elaborazione scenica di Antonella Rebecchini- la giusta nicchia di intensità e di raccoglimento per un testo che, tra scene, luci e sottofondi musicali solo accennati, doveva suscitare –come è avvenuto puntualmente- una risposta di attenzione e coinvolgimento della platea. Non a caso la scelta del debutto di questo particolare testo è caduta su uno spazio perfettamente congeniale come il TeatrosophiA, capace di includere e sostenere l’effetto emozionale cercato.

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