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Immagine del redattoreFabio Salvati

DIARIO LICENZIOSO DI UNA CAMERIERA di Mario Moretti - Regia di Gianni De Feo



Giovanna Lombardi porta in scena fino al 13 novembre al TeatrosophiA un testo di Mario Moretti –importante drammaturgo, ma anche teorico e animatore teatrale- che con piccoli, ma incisivi tratti narrativi, racconta una certa società parigina all’alba del Ventesimo secolo.

La pièce è una riduzione teatrale del quasi omonimo romanzo di Octave Mirbeau, da cui Luis Bunuel trasse uno splendido film nel 1964 con Jeanne Moreau. Un’ascendenza certo difficilmente comparabile, ma di fronte alla quale l’adattamento di Gianni De Feo -che firma anche la regia- non mostra alcun disagio, forte di una prestazione attoriale di prim’ordine, ma anche di un fine lavoro di scrittura scenica che invita sottilmente lo spettatore a esorbitare lo stretto perimetro temporale dell’ambientazione di partenza.

La scena si presenta sobria e descrive una sentina appartata di casa, dove Celestine si lascia andare al ricordo: ora è al servizio dei Signori Lallaire nella loro Villa La Priora. La padrona è maniaca delle pulizie e custode solerte degli arredi di casa. Il marito -perso nei trastulli irrilevanti dei borghesi senza scopo- lancia segnali di trasporti e velleità adulterine che la bella Celestine non tarda a raccogliere, avviandosi -nel ricordo dei suoi avvicendamenti al servizio di tante magioni borghesi della provincia francese- a segnalare la circostanza come una sorta di contagio che ha accomunato nella medesima proclività tutti i padroni o le padrone che le è capitato di servire.

E così emergono al suo ricordo, frammenti di scene e situazioni indicatrici di una sorprendente (non per lei che ha fatto in fretta ad adeguarvisi) degradazione morale, di nevrosi e pulsioni inconfessabili più o meno represse, di inclinazioni fanatiche, buone a dissimulare la sostanza perversa e nauseante dell’identità borghese.

C’è l'anziano feticista che pretende che la cameriera gli si presenti calzando stivaletti con i quali egli poi si ritira in camera da letto, c’è la patetica e attempata signora che non intende rassegnarsi alla decadenza della carne per essere sempre all’altezza del suo gigolò, il malinconico tubercolotico che invoca prestazioni amorose da lei come viatico di guarigione.

C’è infine il callido Joseph –sospetto omicida di una innocente giovanetta- che convola a nozze con Celestine. Ma niente finale positivo: c’è del marcio anche lì.

Joseph – il sospetto omicida pedofilo, che non manca però di impugnare l’ipocrisia borghese dei richiami alla Nazione e all’identità cristiana, o di mantenersi puro fino al matrimonio- propone a Celestine sostanzialmente di diventare con la sua avvenenza l’attrazione per i marinai frequentatori di un bar che andranno ad acquistare.

Lei si emanciperà finalmente dal suo destino di cameriera eventualmente godibile a beneficio dei datori di lavoro e lui si assicurerà le rendite del locale, mettendosi al riparo dal rischio di eventuali strascichi di indagini sui suoi trascorsi. Ma nessuno, nella considerazione del coniuge, sfugge al proprio passato, come rimarca lo scambio finale di “affettuosi” richiami tra l’uno e l’altra.

Il peso e il merito della riuscita va tutto alla protagonista Giovanna Lombardi, capace di effondere fin dal principio un’aura di sensualità, malizia e spregiudicatezza alla filiera dei ricordi che si incarica di condividere con il pubblico, senza mai perdere in naturalezza ed efficacia, anche quando il passo delle sue rimembranze la lascia imbattere in passaggi più riflessivi o quando la denuncia dell’ipocrisia borghese si fa più dura. Un disprezzo e una condanna dai quali, in fin dei conti, nessuno è risparmiato, come se la negatività dei paradigmi borghesi fosse capace di infiltrarsi dappertutto, anche dalle parti di chi si illudeva di dominarne e padroneggiarne gli istinti.

Le scene e i costumi sono di Roberto Rinaldi.

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