Un pezzo della nostra storia risorgimentale raccontato dall’ombra.
L’ombra è la proiezione fatua dell’essere, scorta allungata del nostro passaggio nelle giornate di sole, depistaggio visivo nel processo di conoscenza che Platone assegna all’inconsapevole uomo della caverna, ma è anche rovescio oscuro di tutto quello che si consuma nell’ordito di un inquietante e paradossale “ufficio informazioni” di un’entità statale ancora non emancipata dalle sistematiche dispotiche e della conservazione. Molte vicende del XX secolo ci hanno insegnato, proprio a noi italiani, che l’ombra è molto spesso il laboratorio preferito per organizzare la Storia e amministrarne i processi di svolta secondo le indicazioni del Potere di turno.
Insomma, gente, qui si parla di noi. E non solo di come eravamo.
Questo spettacolo ricostruisce con testarda e coraggiosa meticolosità le trame del pedinamento decennale che il Regno di Sardegna aveva attivato nei confronti di Giuseppe Mazzini, di colui che veniva ritenuto un pericoloso eversore per i progetti espansionistici dei Savoia, da consumare all’insegna di una equivoca volontà di unificazione dell’Italia, divisa, com’è noto, in una lunga teoria di staterelli. A scanso di equivoci, diciamo subito che il lavoro è ben lontano dall’avere un passo semplicemente biografico della vicenda umana e storica mazziniana, non appartiene al genere biopic (anche se la ripresa al Teatro Ghione ha coinciso proprio con il giorno del centocinquantesimo dalla sua morte), ma contiene tutta la materia drammaturgica possibile, declinata attraverso quadri narrativi diversificati, illustrati con efficacia dall’impiego discreto, ma sempre appropriato, di proiezioni di ambientazione, tanto che lo spettatore non fatica a sentirsi di volta in volta introdotto all’interno di ambienti polizieschi, ovvero nelle segrete di una cella, o ancora nel salotto inglese dell’ospite dell’esule Mazzini, o infine tra le barricate sfortunate della Repubblica romana.
La pièce si avvale di una scrittura di tutto riguardo che non teme di misurarsi con le asperità espressive di un lessico spesso desueto, confidando in un pubblico che rimane attento a una narrazione che non risparmia la migliore delle leve narrative: il contrasto tra i personaggi sulla scena (anche la scelta tecnica di impiegare gli archetti per gli attori in scena, va letta certamente come “rafforzamento” per favorire l’ascolto).
E così vediamo svolgersi il racconto a far principio dai falliti tentativi insurrezionali di ispirazione mazziniana consumati a ridosso del 1830, che ne determinarono prima l’arresto e poi l’esilio tra Marsiglia, la Svizzera e infine Londra, ma soprattutto l’idea di fondare una nuova organizzazione politica, la Giovine Italia, nella quale far confluire il progetto di costruzione di una Nazione nuova di ispirazione repubblicana e dunque anche di un popolo nuovo, partecipe consapevole dell’utopia unitaria e non semplice aggregato numerico, come sostanzialmente teorizzato dalla vecchia Carboneria, ancora impantanata nell’illusione di lasciar guidare l’ondata risorgimentale da una monarchia -come quella sabauda- che aveva dato ampia prova in Carlo Alberto (e tante ne avrebbe replicate in seguito) di essere infida e fellona.
Una storia di insurrezioni fallite, di esuli, di condanne a morte, raccontate dal back stage (ancora l’ombra dei fenomeni..…) di polverosi uffici di polizia, dove giganteggiano le potenzialità espressive di personaggi di fantasia e non, come il truce commissario Broglia (incarnato dal bravissimo Giuseppe Renzo) o della inquieta spia Cavassa dei Conti di Carmagnola (Valerio Palozza) o ancora del callido Cavalier Bongiovanni, Prefetto di Genova (Fabrizio Bordignon, impeccabile anche nel doppio ruolo di Thomas Carlyle). Ma l’agone dialettico prevede anche personaggi sicuramente esistiti come Pier Dionigi Pinelli (ne veste i panni con efficacia Cristiano Leopardi) la cui presenza sulla scena, nella guisa ancillare che il copione descrive per lui, all’ombra delle perverse trame del Broglia (una menzione anche a Federico Mastroianni, carceriere e sgherro di Broglia), cristallizza uno dei convincimenti che maggiormente e desolatamente ritornano all’analisi del nostro percorso risorgimentale: l’attitudine gattopardesca della politica a conformarsi ai bisogni del Potere, fino anche a rinnegare se stessa.
Ma la pagina più lirica della prima parte dello spettacolo sta tutta nella triste vicenda del personaggio reale di Jacopo Ruffini (lo interpreta, restituendone in pieno tutte le connotazioni infelici, Salvatore Cuomo). Costui era un giovane mazziniano della prima ora, tra gli organizzatori del fallito tentativo di invasione della Savoia e rinchiuso nella tetra Torre Grimaldina del Palazzo Ducale di Genova, dove si sarebbe suicidato, per non dover sostenere il programma di torture per lui predisposto per conoscere i nomi degli altri cospiratori. Di lui Mazzini conserverà sempre un ricordo delicato e malinconico. Quello che si deve a chi ha sacrificato la gioventù sull’altare di una utopia, che tutto sommato, la Storia a seguire avrebbe confermato tale.
Nella seconda parte della pièce, invece, la narrazione rivela tutto il suo impianto ideologico. Si esce dall’ombra tetra dei bureau polizieschi e siamo sulle barricate di quel 1848 che avrebbe incendiato l’Europa intera. I fuochi fatui della rivolta di Milano e soprattutto della Repubblica romana si offrono come pretesto per dipanare tutta intera la rivendicazione di quelle idealità mazziniane che sarebbero state sconfitte dalla Storia, a beneficio dell’approdo posato e convenevole imposto da Cavour e dalla mediocre monarchia sabauda. Quel periodo fondamentale della Storia è stata un’occasione persa per mettere finalmente a terra un pensiero diverso di Popolo e di Nazione. Ma ancora altri morti giovani (il bersagliere Luciano Manara, interpretato da Mauro Ascenzi, li simboleggia tutti, nell’ardore entusiastico con cui accorre a Milano, per poi lasciarsi sacrificare dalle parti del Gianicolo in difesa di Roma nel 1849). E ancora divisioni nel fronte patriottico, come risalta con grande efficacia nel confronto dialettico tra le uniche due figure femminili della pièce, la giornalista statunitense Margaret Fuller (Laura Sellari) e Cristina Trivulzio di Belgiojoso (Francesca Baragli).
Lo stesso personaggio di Mazzini (lo interpreta l’autore e regista Emanuele Cecconi) si regala nel finale un varco dall’ombra che aveva giganteggiato per tutta la partitura, per regalarci una appassionata perorazione del proprio instancabile impegno nell’indicare una strada che il nostro Risorgimento non è stato all’altezza di percorrere, con tutte le inevitabili ricadute negative sui processi formativi della Nazione.
L’epilogo scalda il cuore di una platea (si contavano diverse presenze di appartenenti all’associazione mazziniana e garibaldina) che deve aver recepito nella propria esperienza civile il messaggio contenuto nel sottotitolo della pièce: il Risorgimento è il romanzo di una Italia mai nata realmente. Dove un personaggio può perfino affermare senza troppo pericolo di smentita, che in fondo “la libertà non esiste”.
Un plauso collettivo alla Compagnia Piano Zero Teatro per il coraggio di una rappresentazione densa e seria, dal forte impatto civile, con particolare segnalazione per le scenografie di Cecilia Sensi & PTZ e i costumi d’epoca di Isaura Bruni, le fotografie sono di Martino Fiorentini, l’organizzazione è di Alessandra Romano, la produzione di Milly Staccioli, l'Ufficio stampa è curato da Andrea Cavazzini.
Lo spettacolo verrà rappresentato prossimamente anche nelle città di Pisa e Genova.
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