
C’è tutta l’atmosfera dell’arena estiva all’ArenAniene nella serata organizzata al Parco del Ponte Nomentano giovedì scorso: la ricerca snervante del parcheggio, la conquista della sedia di fortuna davanti allo schermo che si va gonfiando, il microfono con la voce che va e che viene. Ma la magia è tutta lì e non c’è estate romana degna di questo nome (anche oggi che il brand è desueto) senza una puntata all’evento corale di visione collettiva: certo come al cinema, ma l’arena estiva offre qualcosa di più. Specie questa volta che danno il film Io capitano di Matteo Garrone.
C’è qualcosa che prelude al racconto visivo che ci apprestiamo tutti a vedere, di lì a un momento (che poi non è mai un momento, perché bisogna aspettare che l’arena si riempia e peggio per te che sei arrivato presto, per guadagnare le prime posizioni, magari sotto all’altoparlante, così senti bene le scariche acustiche del microfono..): sarà lo sguardo che si perde tra le file delle sedie precarie sistemate alla bell’è meglio, sopra un tappeto di poliespanso a mascherare la polvere del luogo, saranno le baracche che vendono acqua e poco altro, sarà il calore opprimente di questa Roma africana che ha perso per strada gli ingentilimenti del ponentino. Tutto insomma a ricordarci che anche qui non siamo poi così lontani da quel mondo che ci verrà raccontato di lì a un momento.
Ma appena le prime immagini partono ci accorgiamo subito che dentro a quel confuso paragone di esergo, siamo noi a essere in difetto rispetto al Senegal della pellicola: dove abbiamo più quell’allegria collettiva, quella solidarietà di comunità, quella festa di colori che la pellicola ci rimanda fin dai primi momenti? Lì si vive una frugalità quotidiana, che si accontenta di mettere insieme i bisogni della pura sussistenza, ma non si scontano quelle ansie da progetto e da futuro che -nel migliore dei casi- dalle nostre parti sono diventate urgenze performanti, capaci di renderci tristi e nemici.
Il futuro, per i due protagonisti, si alloggia nel mondo dei sogni, alimentandosi coi miraggi provenienti dagli iPhone, inseguendo una lusinga in grado di mobilitare le –poche, per loro sedicenni- risorse di risparmio in nome di un viaggio da irregolari, che non promette niente di buono.
E a noi che guardiamo –con tutte le nostre sicurezze al riparo in banche e supermercati- quei preparativi ci sembrano niente più che uno sciagurato e dissennato approccio alla sventura di là da venire, con tutte le sotto-stimazioni dei pericoli, difficili da rappresentarsi alla partenza. Ma niente più di questo: il quesito sul che fare allora dei loro sogni di ragazzi, si spegne in proposizioni di maniera che ci rendono buana ripetenti, oggi colonizzatori pentiti, magari anche caritatevoli, ma sempre privi di risposte reali a un problema che sembra senza soluzioni.
Il regista Matteo Garrone, pantaloni militari a mezza gamba, in tenuta decisamente estiva, è intervenuto al principio parlando di certe contaminazioni letterarie (da Omero a Conrad, a Jack London) che hanno alimentato il respiro della sua narrazione. Ma ci ha tenuto soprattutto a sottolineare che il progetto –in disparte da qualsiasi messaggio morale e, soprattutto, schivando le insidie della retorica- nasceva dal desiderio di proporre il racconto che sembrava mancare alla narrazione che riempie da anni le cronache: un documento asciutto e duro del viaggio di due giovani all’inseguimento dei propri sogni, attraversando non solo le distese desertiche, ma anche le infinite insidie di lestofanti senza scrupoli, fino alla sfida dell’imbarco, che trasforma incredibilmente il giovane protagonista Seidou nel nocchiero trionfante che con la sua insistita rivendicazione dalla plancia di comando ha commosso intere platee nel mondo.
Un plauso all’organizzazione dell’evento e un ringraziamento al regista non solo per essere intervenuto, ma anche per averci proposto una pellicola capace –come lui auspicava- di muovere il pensiero dello spettatore.

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