Questa non vuole essere una recensione, ma piuttosto una esortazione energica a precipitarsi a vedere questa straordinaria messa in scena del dramma di Anton Cechov.
C’è tempo fino a domenica 12 febbraio per applaudire il considerevole adattamento di Roberto Valerio -che firma anche la regia- e compiacersi della scelta del Teatro Parioli di aver ospitato in Cartellone un insieme di attori di prim’ordine sulla scena: Pietro Bontempo, Mimosa Campironi, Giuseppe Cederna, Massimo Grigò, Alberto Mancioppi, Caterina Misasi ed Elisabetta Piccolomini, elencati rigorosamente in ordine alfabetico per evidenziare, ancor di più, il risultato di una Squadra attoriale di grande qualità e pregio.
L’attesa vana di un modo migliore di vestire i nostri giorni sulla terra è un po' il convitato di pietra che aleggia in tutta la pièce e che la rende perfettamente attuale, oggi che – esattamente come ieri- l’umanità da una parte imperversa scriteriatamente nella natura irridendo boschi e clima, non sapendo, dall’altra, come riempire i troppi vuoti dell’esistenza borghese.
E a proposito di attualità, leviamoci di mezzo certi aggiornamenti di cui avremmo fatto volentieri a meno, di cui il conflitto russo-ucraino -perlomeno sulla nomenclatura dei luoghi- ci ha resi consapevoli: si parla di boschi e distese di cereali delle pianure ucraine e si parla di Kharkov (ora Kharkiv oppure Charkiv, ma sempre di questa città parliamo) e quando questo toponimo è pronunciato dal palco come destinazione finale di un viaggio scatta inevitabilmente in platea il rimando alle immagini della città ora martoriata.
Antonio Cederna veste i panni di Zio Vanja, che per sei anni ha amministrato con scrupolo e abnegazione la tenuta della nipote Sonja versandone i redditi al cognato, il professor Serebrjakov (Alberto Mancioppi), vedovo di sua sorella e padre di Sonja. Il protagonista, giunto alla soglia dei sessant’anni, vive un tormento interiore che gli fa denigrare lo sperpero di gioventù con cui ha lasciato andare il proprio passato, nella quotidiana dedizione al lavoro e alla responsabilità. L’amara constatazione si traduce in un lascito bruciante per il presente: una vita che non riesce a essere vissuta veramente reclama “miraggi di vita”. E così lo vediamo in scena spesso ubriaco di vodka, assieme ai suoi sodali con cui condivide –ciascuno a suo modo- la medesima percezione: il cinico e disincantato medico Astrov (Pietro Buontempo) e il servile e bizzarro Telegin (Massimo Grigò).
Con loro, nella frugalità predestinata di una vita dimessa, si destreggia la giovane Sonja condannata -dalla natura e dal genere- a sorvegliare gli eccessi ebbri dello zio e dei suoi compari, ma soprattutto, rivendicando una femminilità compressa, a farsi notare, con poca speranza, dall’affascinante dottor Astrov. La giovane attrice che veste i panni di Sonja, Mimosa Campironi, merita una citazione a parte, per la sua versatilità nell’incarnare un personaggio a più declinazioni, malinconico e energico nella sua speranza di vita, fragile e disperatamente enfatico quando il monologo finale la chiama a declamare il filo esangue di una vita sottratta a ogni forma di aspettativa.
Ma tra i miraggi di vita che gli abusi alcolici possono regalare e la consacrazione rocciosa al rito dei giorni che si ripetono uguali, la vita procede senza colpi, fino a che l’apparente serenità famigliare viene turbata dall’arrivo di Serebrjakov che soggiorna in quella dacia insieme alla seconda moglie, la conturbante e giovane Elena (Caterina Misasi.) Quell’arrivo reca anche la destituzione di troppe cristallizzazioni fatue: l’illustre professore non è altro che un mediocre, sfacciatamente ingrato, che può suscitare giusto le attenzioni della svagata, anziana Maman Marija (Elisabetta Piccolomini), madre di Vanja e nonna di Sonja.
Al cospetto di quell’avvento, tutto mostra la vacuità di quell’esistenza, neppure capace di un vero gesto di ribellione: in un momento d’ira Vanja arriva a sparare all’accademico, senza colpirlo, così come i tentativi di seduzione della bella Elena naufragano senza rimedio e perfino un proposito suicida rivela la sua grottesca caducità.
Ce n’è abbastanza per riconoscersi ancora in quei personaggi e in quelle vicende, sospesi ancora come siamo nella rivendicazione delle nostre attese di un Godot purchessia, capace di emanciparci da esistenze vuote e opprimenti, mentre ci intratteniamo a collezionare, per le nostre giornate piegate all’esigenza di produrre e consumare, sfarzi di cornici su pagine bianche.
Il rimpianto della giovinezza perduta di Vanja e la giovinezza sprecata di Elena, l’ozio borghese che contamina e distrugge “il vostro ozio ci ha divorato”, quei desideri che sembrano indicare un segnale di reazione, mentre la realtà quotidiana inchioda tutti nell’inerzia totale “l’uomo è fatto non per costruire, ma per distruggere” : un ossimoro ben rappresentato in scena dal velo in tulle, sapientemente illuminato da Emiliano Pona, sostenuto dalle musiche scelte da Alessandro Saviozzi. I costumi sono di Lucia Mariani, produzione e allestimento ATP Teatri di Pistoia –Centro di Produzione Teatrale- con il sostegno del MiC e della Regione Toscana
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