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  • Immagine del redattoreFabio Salvati

WERTHER A BROADWAY – scritto e diretto da Giancarlo Sepe


Un linguaggio scenico tanto originale, un teatro per immagini e sonorità ricercate così non convenzionale lo si può trovare solo allo spazio de La Comunità, dove il leggendario Giancarlo Sepe continua con ostinazione a portare avanti un discorso tutto suo sul teatro, incurante di mode, tendenze o di astute imprese di sciacallaggio, buone solo a intercettare il favore del pubblico.

Questa volta si parla di America, a chiudere una trilogia iniziata con Washington Square, e con Abecedario americano. E per raccontarla, quale migliore punto di vista di un europeo, in evasione dalla madre terra tedesca, dove è stato trafitto da pene d’amore ? E non di un europeo qualunque, ma dell’eponimo apostolo della malinconia: quel Werther goethiano di cui ricordiamo l’inesausta lotta romantica contro il desiderio di morte per sanare la delusione dell’impossibile amore per la bella Lotte, promessa sposa di Albert.

Il giovane eroe dello Sturm und drang è perfettamente incarnato dal giovane (talentuoso e sorprendente) Giacomo Stallone, che ripropone -letteralmente in faccia al pubblico di prima fila- i tormenti visivi e le lacerazioni urlate della sua infelice passione. Ma del romanzo epistolare originale non rimane nulla in questo allestimento: Werther –anche nell’ammonimento presago di una lapide che porta il suo nome, scortando il racconto per tutta la sua durata- cercherà stordimento e dimenticanza compiendo un salto non solo spaziale, ma anche temporale nella Broadway degli anni Cinquanta. Sarà il mondo dello spettacolo ad attirarlo, con le sue delizie poco vestite, incipriate e pronte a tutto, in quella sospensione di vita che a teatro chiamano prove. In scena –per uno scherzo del destino (lo stesso che deve aver inciso il suo nome prima del tempo su quella lapide in scena) stanno mettendo la riduzione in musical dell’opera di De Musset Non si scherza con l’amore.

Anche qui si racconta la vicenda del sofferto triangolo amoroso tra Camille (Camilla Martini), Perdicano (Pierfrancesco Nacca) e Rosina (Federica Stefanelli) e anche qui la morte sorveglia la storia, portandosi via quest’ultima, la più debole di turno (a completare il gruppo attoriale particolarmente performante anche Sonia Bertin, che interpreta Stella). E da qui –nel ciclone di quella ribalta- parte la giostra di lustrini, camerini come sentine circensi, guêpière esibite con sfrontata impudenza, amorazzi veloci tra le quinte. Al cospetto di tutto questo si dovrebbe realizzare il processo catartico di Werther. Ma neanche la magia del teatro riesce a fare il miracolo e il suicidio del protagonista si compie irrimediabilmente, proprio come un destino già scolpito. Ma tutto viene narrato per immagini, forti e soprattutto nella dimensione corale, laddove l’azione si sostituisce facilmente alle parole, il testo è soltanto un ripiego per ansimare in tedesco rabbia e malinconia romantica, il francese per declinare l’accoglienza dei commedianti, il raro inglese per contestualizzare, l’italiano per rammendare gli eventuali vuoti comprensivi. E poi soprattutto tante melodie, una più giusta e preziosa dell’altra, sotto un vigore parlante di luci amministrate sempre con perfetta cura ed eleganza.

Nel gioco multiforme di espressività artistiche, ancora una volta in questo spettacolo si registra quella quota emotiva che si riversa dal banco di un Maestro che riesce sempre a stimolare tutte le corde dell’attenzione e della sorpresa. Le scene sono di Alessandro Ciccone, i costumi di Lucia Mariani, disegno luci Guido Pizzuti, le musiche Davide Mastrogiovanni. Una produzione Fondazione Teatro Della Toscana – Teatro La Comunità 1972.

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