Come nei film dell’argentino Solanas, una pioggia insistente -sotto la quale l’esistenza palesa tutta la sua precarietà- fa da coro all’impianto narrativo di questa celebre pièce, che ha visto nascita e successo al cinema, circa venti anni fa e che rappresenta uno dei più originali lavori del regista premio Oscar Giuseppe Tornatore.
In una notte di tempesta, un uomo, incongruamente vestito, si aggira per la campagna francese: una piccola pattuglia di sbirri lo arresta con maniere spicce e lo conduce in un ambiente che all’apparenza sembra essere quello di una stazione di polizia. E’ chiaro fin dal principio che siamo dalle parti del thriller, anche grazie all’impiego complice delle luci, utilizzate per centrare magari i dettagli di quello squallido ambiente, piuttosto che i volti dei presenti: un armadio storpio al centro della scena, secchi di raccolta empirica dell’acqua che gronda a gocce dal soffitto sbeccato, un tavolino di lato su cui è poggiata una macchina da scrivere, una scrivania spoglia, con faldoni di fascicoli ammucchiati (le scene sono di Eleonora Scarponi).
L’attesa del commissario dona allo spettatore lo sguardo d’insieme sull’impazienza del prelevato, sulla enigmaticità della situazione, e l’attesa -come il buio sui volti- è un ingrediente del pathos che la pièce intende evocare. A vestire i panni del protagonista -che si rivelerà lo scrittore Onoff, in crisi creativa da anni, ma che difende con malcelato orgoglio un certo passato di notorietà- è Claudio Boccaccini, qui nei panni di attore, ma che non rinuncia anche in questo allestimento a imprimere la sua di consolidata e apprezzata tempra di regista, specialmente nel disegno delle luci, sovrapponendo vistosamente il sigillo dei suoi personalissimi effetti d’insieme, alla regia che porta la firma di Roberto Belli (lascito evidente e rispettoso di un precedente allestimento).
Il sopraggiungere del commissario scandisce il passaggio alla dimensione dialettica della storia, laddove l’interrogatorio conosce più di una declinazione (bravissimo Paolo Perinelli, a interpretarlo, nelle diverse sfumature del personaggio). Il commissario si dichiara ammiratore del già noto scrittore e vero e proprio cultore delle sue opere, e inizialmente la loro contrapposizione è blanda, perfino ossequiosa, per l’invito costantemente rivolto all’irrequieto e neghittoso Onoff di sottoporsi alla “pura formalità” richiesta da quella misteriosa istruttoria, declinando le proprie generalità e ricostruendo i suoi movimenti più recenti. Lentamente il confronto si fa sempre più incalzante fino a somigliare sempre di più a una vera e propria perquisizione all’interno del disordine esistenziale dello schivo Onoff, costretto a confrontarsi con il proprio inquietante corto circuito mentale, originato da qualcosa di evidentemente traumatico che lui non sa dire, fino a quando –nel sorprendente epilogo della vicenda- con l’ultimo guizzo maieutico, il commissario non lo mette davanti alla verità che si disvela anche agli occhi dello spettatore, facendo tornare tutti i conti dei tanti indizi sparsi qua e là nella narrazione.
Questa riduzione teatrale della pièce, pur con il sacrificio del montaggio alternato e dello strumento del flashback che la sua versione cinematografica fatalmente possiede (rimediando a un certo vuoto di dinamismo dell’insieme), conserva intatta l’atmosfera onirica del racconto di genere, con infiltrazioni surreali sempre più generose e riflessione sui meccanismi della dimenticanza che molto spesso corrono in soccorso per dispensarci dalle ricadute emotive dei traumi.
Il coro degli “sbirri”, nella versione manesca (Paolo Matteucci e Riccardo Frezza) ovvero benevola e pietosa (Andrea Meloni), partecipa in maniera efficace all’equilibrio dell’insieme.
Al Teatro Marconi fino al 26 febbraio
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