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  • Immagine del redattoreFabio Salvati

NON FUI GENTILE, FUI GENTILESCHI di Roberto D’Alessandro e Federico Valdi - regia di R. D'Alessandro


La vita di Artemisia Gentileschi


Sul coraggioso e resistente palcoscenico de il Teatro Arcobaleno, in questi giorni è in scena uno spettacolo su Artemisia Gentileschi.

Senza troppi artifici lo spettacolo rivela subito la sua natura: l’unica attrice in ribalta, Debora Caprioglio, accoglie la platea con un cenno di benvenuto, a restituire subito un che di debito di riconoscenza verso un pubblico convenuto ad ascoltare le tappe della sua vicenda esistenziale. Di un racconto in effetti si tratta, un racconto attento a non tradire il lessico del suo tempo tardorinascimentale e la grammatica narrativa, che pretende coerenti scansioni temporali (inclusa la rivendicazione, nel suo caso, di un talento pittorico capace di metterla alla pari con gli artisti più celebri della sua epoca).

Il piano narrativo scelto è necessariamente lineare, come consentito dalle strettoie di un resoconto biografico, ma non per questo la curva dell’attenzione corre rischi di sorta nell’ora e mezza di spettacolo: a tenerla desta ci pensano i movimentati passaggi della vicenda umana della grande “pittora” barocca, la straordinaria duttilità del copione (che si deve alla ispirata penna di Roberto D’Alessandro e Federico Valdi), ma soprattutto la smisurata bravura dell’interprete, capace di scortare la sua narrazione con i giusti calibri emotivi dei vari momenti, senza risparmiarsi nelle vere e proprie veroniche drammatiche con cui era indispensabile avvolgere le stazioni esistenziali.

Quel che pian piano emerge è la rivendicazione di una eccezionalità, mai assertiva, semplicemente vissuta, fin dalla scelta (magari solo ereditata dal padre Orazio, ma si sa che il destino nasconde il sigillo dei miracoli...) di non seguire la filiera patronimica del suo cognome, Lomi, bensì quella matronimica di Gentileschi, per poi formarsi alla bottega del padre Orazio, infaticabile restauratore di chiese al servizio del Verbo postconciliare, laddove convenivano i maggiori artisti del tempo, da Carracci a Caravaggio, fino ad affrancarsene lentamente, con le prime produzioni pittoriche che le assicurarono fama e richieste dei committenti. E’ proprio nella bottega paterna che apprende i fondamentali del mestiere, gli impasti dei colori, i segreti dei pennelli, cristallizzando giorno dopo giorno il legame che durerà per sempre con il padre Orazio, pur nelle luci e ombre di un rapporto che dal palco della sua narrazione Artemisia ci restituisce in tutta la sua dimensione complessa.

Appena emancipata dall’ombra paterna e dopo la tribolata esperienza del notissimo processo per lo stupro subito a 18 anni, si sposa e lascia Roma, trasferendosi a Firenze, laddove il Granduca Cosimo II, aveva cominciato a radunare il fior fiore degli artisti. E’ qui che –grazie anche allo zio paterno Aurelio Lomi (appunto…)- viene introdotta nei circoli cittadini più illustri, frequentati da Galileo e da Michelangelo, diventando, sia pure a fatica, finanche membro dell’Accademia fiorentina. Il rientro a Roma la vede incrociare esponenti della pittura fiamminga come Rubens e Van Dyck. Poi ci saranno altre peregrinazioni, tra Genova, Venezia, Londra e infine Napoli, laddove l’ormai matura Artemisia soggiornerà volentieri (la città all’epoca era considerata una metropoli di tutto rispetto, seconda solo a Parigi) e dove riuscirà a maritare come si conviene l’amata figlia Palmira.

E’ su questo passaggio che lo spettacolo segna una discontinuità: senza troppi complimenti l’Artemisia in scena –come nella sua vita reale- si accorge che l’interesse verso il suo personaggio è ancora catalizzato intorno alla vicenda dello stupro consumato ai suoi danni da Agostino Tassi. E accontenta la platea misurandosi con il racconto della violenza: un racconto che era stato preceduto in apertura (l’unica concessione alla sequenza cronologia del narrato a seguire) dal ricordo delle torture (sì torture!) patite nel corso del processo perché fosse asseverata la sua accusa nei confronti dello stimato pittore Agostino Tassi, maestro della prospettiva, al quale il padre Orazio l’aveva affidata affinché ne completasse la formazione.

Il racconto dello stupro è asciutto, drammatico nell’incedere lessicale paratattico della struttura. Quasi come un verbale di polizia o un resoconto giornalistico e la memoria corre al ricordo della medesima, terribile esperienza vissuta e raccontata coraggiosamente da Franca Rame oltre 50 anni fa, a uno stupefatto pubblico televisivo.

Ma in disparte dalla indispettita leva di avvio del narrato (voi pubblico volete sapere questo…), l’Artemisia in scena trova il modo, anche a margine di questo agghiacciante frammento di ricordo, per chiudere i conti con l’ingombrante (e opaca) figura paterna, nella scontrosa pacificazione avvenuta sul suo letto di morte londinese.

La regia di Roberto D’Alessandro segue in punta di piedi tutto l’impianto narrativo, regalando illuminazioni e oscurità sempre coerenti e mai ingombranti o eccessive, così come i sottofondi dei tappeti musicali.

Scene Roda – Costumi Antonia Petrocelli – Creazione Anna Mode

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