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Immagine del redattoreFabio Salvati

LA ROSA NON CI AMA di Roberto Russo – Regia di Gianni De Feo


Ha debuttato giovedì scorso, sul palcoscenico del Teatro Lo Spazio, l’intenso spettacolo teatrale La Rosa non ci ama di Roberto Russo, che rievoca un eccidio consumato negli ambienti nobili napoletani nell’Ottobre del 1590

La rosa è un simbolo controverso: l’epoca contemporanea la consegna alla superficiale allegoria della passione, ma nella filiera temporale della sua semantica sembra contendere alla spada il significato della passione che uccide.

Questo l’incipit che fa da sfondo al racconto di un delitto d’onore che si è consumato all’alba del 1600 in una delle magioni nobiliari della Napoli vicereame spagnolo.   Un delitto come tanti, una passione adulterina che chiama la vendetta del marito tradito, il principe Carlo Gesualdo da Venosa, eccellente autore di madrigali, per il massacro dei due reprobi, la bellissima moglie Maria D’Avalos e il Duca d’Andria Fabrizio Carafa. Pare che tutta Napoli fosse al corrente di quella storia extraconiugale che andava consumandosi all’interno del Palazzo Sansevero (lo stesso che ospita nella navata centrale della sua cappella il famoso Cristo velato). La bella e giovane Maria si abbandonava all’amore sfacciato per il bel Fabrizio, indifferente ai pettegolezzi che facevano da scorta a quella storia. Fino a che qualcuno aveva sussurrato alle orecchie del distratto marito il disdoro di quella relazione, da bagnare nella vendetta del sangue.

Una storia come tante, ma il pregio di questo spettacolo sta tutto nelle modalità del racconto, agito su un palcoscenico povero di scenografia, ma denso di intensità drammaturgica, che si consegna da subito all’occhio dello spettatore: su un fondale nero, a disegnare la persistenza della linea temporale notturna della narrazione, sotto un busto striato di rosso, che grava come un nume al di sopra della storia, i due straordinari interpreti si apprestano a rievocare la loro vicenda proponendosi di volta in volta nei ruoli dei protagonisti e dei comprimari, come fossero due fantasmi che cercano il loro personale processo di sintesi, tra rivendicazioni e giustapposizioni, nel labirinto della memoria che li imprigiona come giocatori del cubo di Rubik, che si passano a metaforizzare le rispettive rappresentazioni.

 L’azzardo dei costumi, pronti a declinarsi fino alle guise contemporanee, racconta ancora di più la persistenza del conflitto d’amore, quello che si aggiorna continuamente e che sforna quotidiane storie di eccidi muliebri, ieri guidati e protetti dalle immunità dell’onore, oggi sguaiatamente discolpati dallo sfascio delle odierne temperie.  

I due interpreti in scena duellano anche con i rispettivi linguaggi: lei (magnifica Cloris Brosca nella sua tenuta tragica, che riesce a prevedere anche tinte grottesche e spassose quando veste i panni della ruffiana Laura che rivela il suo ruolo nella tresca al gesuita confessore, sia in quelli dell’altra sua domestica Silvia, ovvero del prevetariello) si abbandona spesso e volentieri al napoletano d’antan, a sottolineare, anche con l’impiego dell’idioma, la percussione del furore e la sua insana pretesa di emancipazione dal servaggio dell’amore coniugale, lui –nelle vesti principali del responsabile del massacro- è interpretato con smisurata efficacia da Gianni De Feo (anche regista della piece), interagisce con veemenza, con i sintagmi violenti del  padrone (non a caso spesso declinati nell’idioma castigliano dell’occupatore), alternando il suo dire con madrigali delicati, a memento della sua vera passione in terra, ben lontana da quella coniugale che –in omaggio alle convenzioni- pur gli aveva armato la mano.

Ma, a far da pregio al racconto, si diceva è per intero la struttura dell’opera: gli interpreti sono due sulla scena, ma entrambi si prestano con una versatilità che riempie di efficacia ogni singola caratterizzazione ad affollare il palcoscenico di diversi ordini di personaggi, in una sequenza che non stanca affatto, ma anzi rinvigorisce ogni volta la narrazione.

Detto in primis della grande qualità del testo, ricercato, senza essere mai letterario che rivela la mano sensibile e colta di un drammaturgo d’eccellenza, come Roberto Russo, non si può che passare all’onore della menzione singola uno per uno i fattori della riuscita di questo splendido spettacolo.  

La regia di Gianni De Feo ha all’evidenza personalizzato il copione, riuscendo nell’impresa di rendere coinvolgente, in disparte dalla benché minima scivolata retorica, il racconto di una vicenda d’altri tempi, attraversata da soggettività e sistemi valoriali lontani che avrebbero potuto rendere ispida la recettività.

Gli interpreti hanno dimostrato in egual misura una straordinaria capacità mimesica, in tutte le differenti declinazioni richieste dal copione.

Scene e costumi, impeccabili nel rispettivo vigore drammaturgico, si devono a Roberto Rinaldi. Un apprezzamento a parte per le musiche del Maestro Alessandro Panatteri, che sottolineano tutti i passaggi sempre con la giusta misura, sia nella guisa di tappeto, che delle composizioni cantate da Gianni De Feo.

In scena al Teatro Lo Spazio fino a domenica 25 febbraio

    

 

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