Il sospetto di qualcosa di nuovo e originale rispetto alla trama universalmente nota de La Ciociara doveva cogliere lo spettatore leggendo che l’adattamento recava la firma di Annibale Ruccello. L’enfant prodige del teatro contemporaneo italiano, scomparso prematuramente circa 40 anni orsono, le cui opere vengono riproposte a ogni stagione, lasciandoci invariabilmente la consegna di un peccato: quello di aver perso un talento così completo, cristallizzato nella sua giovinezza perduta, da ragazzo degli Anni Settanta.
In quella stagione Pierpaolo Pasolini, dalle colonne del Corriere della Sera o nei suoi pamphlet polemici, redarguiva gli italiani di aver smarrito la loro ancestrale anima contadina, svenduta ciecamente al mito del Consumo.
Lo spettacolo, con la regia del compianto Aldo Reggiani, viene riproposto a dieci anni dalla scomparsa di quest’ultimo. In scena la moglie Caterina Costantini che interpreta Cesira e la giovanissima Flavia de Stefano che veste i panni di Rosetta.
L’adattamento teatrale si propone come una sorta (oggi diremmo) di spin-off dell’originale: il film si chiudeva sull’abbraccio tra mamma e figlia, a consegnarci la prospettiva di un legame indissolubile, che incatenava il futuro delle due donne nella comune esperienza della guerra. Lo spettacolo si apre con il tappeto musicale di una riconoscibilissima canzone che rimanda agli anni beati del boom economico e con le due interpreti in scena che si disputano ferocemente intorno all’acquisto di una vettura, rivendicato da Rosetta come l’irrinunciabile sigillo del successo, in opposizione a Cesira, che lo giudica uno spreco. La lite è uno squarcio sulle rispettive identità e magari finirà proprio come è accaduto in quegli anni nelle famiglie italiane, con il salvifico ricorso alle cambiali per accedere all’irrinunciabile approdo consumistico. Ma a contare è proprio la sostanza di quella lite: i tempi hanno corroso le identità dei personaggi, proiettando Cesira nel disagio consapevole della propria deportazione dalla sua nativa condizione contadina e proletaria, specchio rifiutato dalla figlia, alle prese con una affannosa rincorsa alle dinamiche del successo ad ogni costo.
E sembra che la ripartenza dal cuore della vicenda originale di Rosetta e Cesira stia tutto qua: lo stupro subito dai marocchini al seguito delle colonne liberatrici, non annovera più soltanto Rosetta tra le vittime, ma si espande metaforicamente a includere la brutalizzazione del nostro Paese, condannato a non riconoscere più se stesso nell’avvento consumistico del Dopoguerra.
Il piano narrativo parte proprio da questa splendida intuizione metaforica che sollecita i ricordi di Cesira per proporre in un flashback le tappe di quella metamorfosi nelle quali riviviamo il dramma che, all’indomani dell’occupazione tedesca di Roma, costringe lei –bottegaia astuta e priva di scrupoli- e la figlia Rosetta ad abbandonare la città e cercare cibo e tranquillità tra le comunità montane della Ciociaria. L’agognato riparo dai cascami del conflitto si rivela ben presto illusorio, visto che il ciclo omerico della guerra- nei panni di un tedesco che sopprime il giovane intellettuale Michele, o nelle scintille del bombardamento di Cassino assieme al trauma dello stupro da parte dei “liberatori”- li viene a raggiungere proprio lì.
La materia trattata è potente, ma si avverte una sorta di vuoto nella capacità espositiva dell’impianto, forse ascrivibile alla necessità di un aggiornamento della regia: ottime le luci, coerenti le elaborazioni della scenografia, corretti e misurati i tappeti musicali, ma sembra che il comparto attoriale (non certo per loro demerito) non sia del tutto consapevole della necessità di sostenere la tenuta metaforica dell’insieme.
Se la promessa d’esordio dell’allestimento era quella di proporre un adattamento dell’opera originale (peraltro a suo tempo condiviso con entusiasmo dallo stesso Moravia), ci saremmo aspettati che la cifra di ispirazione prevalesse sulla mera riproposizione della trama e non che rimanesse confinata timidamente in poche e piccole ridotte dello sviluppo. A soffrirne è la stessa resa drammatica della narrazione, alla quale certo non giova la recitazione –generosa e appassionata, ma troppo esclamativa- da parte della pur brava Costantini, sulle cui spalle pesa anche la messa in scena dello spettacolo.
LA CIOCIARA di Alberto Moravia - Al Teatro Ghione fino al 12 novembre
Adattamento teatrale di Annibale Ruccello
Regia Aldo Reggiani
Messa in scena di Caterina Costantini
Con Caterina Costantini, Lorenza Guerrieri, Armando De Ceccon, Vincenzo Bocciarelli, Vincenzo Pellicanò, Marco Blanchi, Flavia De Stefano
Musiche a cura di Eugenio Tassitano
Scene e costumi: G.P. – Ufficio stampa: Andrea Cavazzini
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