Il vicentino Giancarlo Marinelli, scrittore, regista e drammaturgo, con questo testo si propone -in autentico sprezzo del pericolo sul piano del politicamente corretto- di parlare di violenza sulle donne da un punto di vista tutt’altro che convenzionale. Il teatro ha una funzione veramente civile quando esplora con coraggio una determinata problematica, anche esponendosi al discutibile, accettando di lasciare la platea in una sorta di sospensione riflessiva, prima di lasciarsi andare nel plauso finale.
Qui sul banco degli imputati c’è finito un uomo, un imprenditore di successo (interpretato dal bravissimo Fabio Sartor) accusato di aver appena massacrato la propria compagna davanti agli occhi della figlia. Ma si capisce subito, fin dai primi esordi dell’interrogatorio, che ad essere processato senza mezzi termini sarà l’attuale sistema mediatico-giudiziario, incarnato dalla corriva e iniqua consuetudine da parte dei Tribunali di dare sistematicamente ragione-nelle contese di coppia- all’elemento femminile, in spregio alle conseguenze, non di rado devastanti, delle loro risoluzioni. Contro questo stato di cose si scaglia l’uomo, al cospetto di una affascinante Pubblico Ministero, che a lui sembra l’inquietante replica della compagna, appena massacrata (non a caso l’attrice Caterina Murino interpreta i due personaggi, con cambi di scena e d’abito a vista di ottimo effetto). Ma il veleno del suo “j’accuse” non risparmia nessuno: e ce n’è anche per i gruppi di sostegno di questa pregiudizialità incontrastata, a cominciare dai centri antiviolenza, accusati di ipocrita e ben pagata collateralità.
La tesi, sostenuta fino all’irriverenza è che mentre di violenza alle donne si parla quotidianamente, di uomini ridotti allo sfinimento, per via di ex conviventi capaci di razziarli di tutto, con la complicità di un sistema giudiziario trasandato, nessuno ha il coraggio di discutere. A qualcuno dei maltrattati dal Sistema magari sarà venuto pure in mente “l’idea di uccidere” la controparte: ma –a scanso di equivoci- le note di sala a firma dello stesso autore/regista mettono le mani avanti, rivendicando ascendenze formative tolleranti e “femministe”.
L’allestimento, indipendentemente dalla dimensione contenutistica, si lascia apprezzare per la sua dinamica e avvincente costruzione per immagini. Scene (Lisa Dori De Benedittis), costumi (Teresa Acone) e luci (Luca Palmieri), che sottolineano efficacemente linee e ombre dello spettacolo. Da segnalare il pregevole cameo di Paila Pavese nella parte di una madre certamente evaporata nel limbo di una livida demenza senile, ma pronta comunque al suo tornaconto personale. Le storie parallele evocate sia dalla Cancelliera (Francesca Annunziata), che dal deriso Carabiniere (Francesco Maccarinelli), insieme al losco Avvocato (Paolo Lorimer) sembrano sostenere la tesi che i matrimoni -triturati da continui, silenziosi e sotterranei tradimenti- non esistono più (e anche qui traspare la sottile, velata responsabilità femminile). La stessa figura del Pubblico Ministero, (sicuramente coinvolta emotivamente nella storia da investigare), rimanda –come su già detto- la poca lucidità da parte della Magistratura, spesso femminile, di giudicare questi ormai consueti ed efferati delitti commessi ai danni delle donne. Tutto ciò senza alcuna attenzione alle anime degli uomini, che vengono invece vituperate fino alla morte, schiacciate da un dolore senza ritorno, nella indifferenza e nel giudizio sociale: il fermo immagine degli attori in scena, farà infatti presagire il finale.
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