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  • Immagine del redattoreFabio Salvati

IO MI CHIAMO G - Monologhi e canzoni di Giorgio Gaber e Sandro Luporini - Regia Marco Belocchi

Aggiornamento: 26 lug 2023


Che Gaber non ci sia in questi eventi, ai quali pure accorriamo con passione, è un’amara constatazione che sappiamo esattamente da un ventennio. Andiamo cercando il suo spirito e il suo vitalismo corrosivo per accendere questa persistente “astenia sazia” che percorre le nostre giornate, imperturbabili a tutto.

La locandina dello spettacolo che ha debuttato sabato nella cornice splendida dei Giardini dell’Accademia di Filarmonica, già promette qualcosa di stimolante: un dualismo interpretativo giocato su una dialettica uomo/donna, che lascia pregustare chissà quali scorrerie nella materia forse più frequentata dalla coppia Gaber-Luporini.

Ma forse l’aspettativa era troppo azzardata: ce ne accorgiamo subito quando all’esordio si capisce che sarà l’elemento femminile (la splendida cantante Maria Teresa Pintus) a caricarsi sulle spalle da sola tutto il vigore “gaberiano”, interpretando con lucida passione e un tocco di personalismo che non ha mai guastato, il repertorio –in una dozzina di canzoni- del Nostro assente. La sua è stata una performance di grande rilievo (pur con qualche rimediabilissima eccezione). A sostenerla indubbiamente gli arrangiamenti equilibrati e mai eccentrici di Andrea Moriconi e le perfette esecuzioni di tutto il gruppo musicale in scena.

Lo spettacolo corre via inseguendo il protocollo del teatro-canzone, nell’alternanza di monologhi e di brani musicali. E diciamo subito che la scelta della regia (di Marco Belocchi e di Marco Zangardi co-adattatore dei testi) è stata felice, avendo opportunamente accantonato i temi politici –troppo legati ad extra-testo d’antan, forse oggi incomprensibili- e privilegiando la materia del repertorio legata all’indagine sull’uomo e sulla sostanza delle sue relazioni. Così lo spettacolo è diviso in due parti e non si avvertono più di tanto le cuciture del racconto, che risulta alla fine un unicum organico, pur nella partitura composta da monologhi e brani musicali risalenti ad epoche e spettacoli differenti.

Ma qualcosa manca, e la platea lo avverte sensibilmente, nel disagio restituito da applausi trattenuti, come nell’attesa sempre rinviata di una scintilla di emozione irradiata dal palco che chiamasse al coinvolgimento autentico.

I brani recitati sono stati poco agiti, i monologhi recitati con poca convinzione, risultando perfino inutilmente verbosi, privi di quella scintilla di innesco della rabbia intellettuale, alla quale la platea (tutta “gaberiana”) era sicuramente abituata.

Ma forse è stato il prezzo pagato all’emozione del debutto.

Lo spettacolo c’è tutto e a vent’anni dalla scomparsa di Gaber risulta perfettamente all’altezza del suo ricordo.


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