Se è vero che il teatro è il luogo della metafora, dove la realtà passa il filtro della mediazione rappresentativa, in omaggio al principio di coinvolgimento e a quello pedagogico dovuto alla platea, lo spettacolo Io e Elena in scena al Teatro Trastevere fino al 14 maggio, ha solo sbagliato luogo.
La storia che si racconta è quella di due personaggi femminili, madre e figlia, circondate dalla loro solitudine e da una certa aura di follia: diagnosticata e sotto terapia controllata quella della figlia Elena, sottotraccia (e più pericolosa) quella della madre, alla ricerca ossessiva di relazioni avventizie con maschi, come una sorta di risarcimento sentimentale, per una esistenza giudicata grama e sfortunata.
La ragazza viene da un periodo di ricovero in una struttura psichiatrica e fa ritorno alla casa della madre-frigorifero (così venivano chiamate in psichiatria le genitrici anaffettive responsabili del disagio dei figli) che nel frattempo si è intrattenuta narcisisticamente solo alla cura del sé. La circostanza del rientro della figlia non è salutata dalla madre come un evento felice, perché ripropone la medesima turbativa al proprio compulsivo nomadismo erotico. E la convivenza si manifesta subito difficile: la ragazza (che sostiene il suo recupero abbracciando e confidandosi con una bambola battezzata Blanche) reclama attenzioni e delicatezze che la madre non sa riservarle, impegnata com’è in chat con sconosciuti, promittenti fidanzati e con la sua smania di camuffare l’incalzare dell’età dietro un vortice di parrucche, trucchi e toilette. Il disagio così si riaffaccia nella giovane Elena e conosce declinazioni sempre più violente, aprendo le chiuse della sua malferma stabilizzazione emotiva, fino al vertice dirompente di una lite nel corso della quale tutto si destabilizza.
L’epilogo ripropone l’antico dilemma se sia più folle l’agire dei cosiddetti normali oppure quello dei legittimati da una diagnosi.
Si diceva della incauta scelta del registro drammaturgico per rappresentare una storia di questo tipo: forse, lo si ricava per converso anche dalle note di regia (che a questo punto suonano come una sorta di confessione di complicità con un testo dalle mille manchevolezze), a far difetto all’allestimento è proprio la latitanza della materia teatrale. La vicenda è trattata con eccessivo realismo, come se il racconto delle giornate con la giustapposizione delle due identità (e l’ostentato appiattimento sul canovaccio narrativo del dramma di Un tram chiamato desiderio) bastasse di per sé a conferire dignità e spessore all’intrapresa. Il dramma di Tennessee Williams racconta del conflitto tra Blanche e Stella in chiave certamente iperrealista, ma lì l’obiettivo metaforico è perfettamente centrato perché attraverso quella vicenda si racconta del veicolare travagliato e sconnesso della dimensione del desiderio per comporre il ritratto del declino di una certa società americana del secondo dopoguerra.
Qui invece, l’antitesi tra le due protagoniste sembra fine a se stessa. E a restituirle autentica dimensione drammaturgica non basta la ridondanza di tappeti musicali, né l’accenno a superflue scene ardite, né un certo vagheggiamento di tentazione metateatrale.
Interessante la prova d’attrice della giovane Ornella Lorenzano.
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