La Storia si presta a essere raccontata per piani narrativi naturali, regolati da sequenze logiche e rapporti di causa ed effetto.
Uno storico sarà il migliore dei narratori, capace di governare la materia senza lasciarsi sfuggire niente delle sequenze narrative che va esplicando.
Ma quando si tratta di riprodurre lo spirito di un periodo -metti per esempio la Germania degli anni Venti, quell'immenso, contraddittorio, opaco, laboratorio di novità, azzardo e speranze del Novecento- sguardo e mozione narrativa dello storico non bastano più: il racconto diventa territorio esclusivo del visionario e del poeta. Giancarlo Sepe, (indiscusso Maestro del teatro italiano) li incarna entrambi: nel suo capitolo di chiusura della tetralogia dedicata alla Germania (cominciata negli anni Settanta..), esplora gli anni della rivoluzione perduta della Repubblica di Weimar, laddove tutto era speranza e fucina del nuovo. E per gli spettatori diventa un’esperienza unica, come non succede tanto spesso a teatro: immersione totale, a cominciare da una scenografia semplice, ma allo stesso tempo magnifica, dove la cartapesta impiegata per costruire il presepe delle povere periferie cittadine restituisce il fondale intonato alla drammaticità del racconto ed ogni più piccolo transito narrativo non è altro che una rincorsa di citazioni. Il tedesco è la lingua degli interpreti e solo in pochi passaggi si passa all’italiano, ma questo non disturba minimamente la comprensione dell’insieme, perché tutto è sufficientemente chiaro e comprensibile, fin dal momento in cui compare sulla scena un militare sdraiato in terra. Si intuisce da subito il gioco metaforico: il giovanotto non è altro che la Germania, uscita malconcia dalla Prima Guerra mondiale e mortificata dagli accordi di pace. Il giovane soldato verrà rivestito con altra divisa dalla folla, che intende dimenticare al più presto e che assisterà al ludibrio di un imperatore che abdicherà definitivamente il trono della sua vergogna consegnandosi in fretta alla dimenticanza aspirata da tutti: ora sarà repubblica e le speranze dei giovani spalancheranno le porte al Nuovo che i primi decenni del secolo hanno prodotto. E il gioco di rimandi continui sarà scintillante: nella nostra memoria imperfetta di spettatori italiani quel mondo richiama alla memoria l’Angelo Azzurro e la vicenda del povero professore impazzito fino alla personale vergogna nella follia d’amore verso la provocante cantante Lola interpretata da Marlene Dietrich. Ma nello spettacolo c’è molto di più: ci sono allusioni a tutto l’universo espressionista cavalcato dal cinema di quegli anni, dalla Lulù di Pabst a Metropolis e quel futuro distopico immaginato dal suo autore Fritz Lang e che rivive, a cominciare dalla ideazione di una scenografia fatta di grattacieli e di periferie disumane, percorse da un’incontenibile voglia di vita, dissipata dentro lupanari e cabaret, fino alla famosa donna velata, qui ripetuta sulla scena mentre si districa nel velo intonando una graffiante melodia d’epoca.
In quella rincorsa scriteriata verso l’effimero gaudente (non poteva mancare il richiamo alla vicenda di Anita Berber, nota ballerina dell’epoca, bisessuale e cocainomane) è descritta alla perfezione tutta la vicenda provvisoria e sospesa di quel decennio folle vissuto dalla Germania negli anni Venti: il patibolo di una repubblica –quella di Weimar- che dispensava libertà a chi non sapeva come amministrarla, trovandosi a misurare piuttosto con l’entropia di strade e periferie cittadine ridotte a palcoscenici di violenza e di degrado, per donne condannate a cercare ogni via di uscita dal bisogno, esponendo anche la vita alla pazzia di accompagnatori disposti ad usarle, oppure indifferentemente a sopprimerle. Su tutto, la follia, come un’epidemia sinistra, ad annunciare quella fatale che non avrebbe tardato a sopraggiungere. Per uomini condannati a vivere come automi e che come automi si incolonnano, verso un presente che consuma il nuovo come un dovere da gestire alla svelta e che sembrano già disposti alla nostalgia di un futuro che sta già organizzando le sue nuove leve, infiltrandosi metaforicamente dentro un charleston danzato fino allo sfinimento (collocato non a caso in epilogo al racconto, saluto della staffa di un decennio che ha finito solo per covare le uova del serpente, destinate a schiudersi in quelli successivi).
Giancarlo Sepe sta al teatro esattamente come Federico Fellini sta al cinema: l’esercizio visionario al servizio del racconto, dove la dimensione narrativa è quasi interamente sulle spalle della leva visiva e non piuttosto di quella strettamente verbale: in questo spettacolo a farla principalmente da padrone sono le musiche degli anni Venti di Kurt Weill o di Hanns Eisler, ma è tutto l’insieme della struttura metaverbale a portare avanti il racconto, in una pienezza espressiva che appare veramente magnifica se solo si pensa al ridottissimo conferimento della provvista verbale in lingua comprensibile ai più.
Meritano di essere almeno nominati uno per uno gli straordinari performer che hanno dato vita a questo ineguagliabile spettacolo, a cominciare dalle donne: Sonia Bertin, Chiara Felici, Camilla Martini, Federica Stefanelli, Maria Luisa Zaltron e poi gli altrettanto perfetti interpreti maschili Antonio Balbi, Jacopo Carta, Giuseppe Claudio Insalaco, Riccardo Pieretti, Guido Targetti.
Straordinaria la scelta delle musiche: le dobbiamo a Davide Mastrogiovanni e alla elaborazione di Harmonia team.
Le scene sono di Alessandro Ciccone, il disegno luci di Guido Pizzuti e i costumi di Lucia Mariani. Tutti apporti fondamentali alla riuscita di questo allestimento, andato in scena al Teatro La Comunità, a cui non si può assolutamente mancare.
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