Si fa un po’ di fatica ad aggirarsi tra un ingombro di superlativi che salgono alla mente, dopo aver assistito a questo avvincente allestimento del capolavoro di Rostand: eccellenti le interpretazioni di tutto il gruppo attoriale, ottima la regia, capace di intuizioni di particolare effetto, con giochi di specchi a moltiplicare gli effetti visivi e rimbalzi di ombre ad alludere a scene di guerra movimentate, magnifici e sempre coerenti sottofondi musicali, straordinari i costumi (come gli oggetti di scena, curati fino al minimo dettaglio di uno stilo e di un calamaio d’epoca).
Il commento non vorrebbe impiegarli tutti, per schivare il rischio di apparire stucchevole. Ma non c’è altro modo per comunicare l’effetto prodotto da questa messa in scena, che ha del resto cercato fin dall’ingresso, nel perfetto guscio teatrale creato nel Teatro Stanze Segrete, un patto di sospensione con i suoi spettatori, sorprendendoli con la magia di una coltre nebbiosa ad avvolgere la scena e con tre degli attori ciascuno in un angolo, immobili, coi loro costumi seicenteschi a suggerire a chi sopraggiungeva che il mondo era rimasto chiuso fuori, sul selciato di Via della Penitenza e che qui, signori, va in scena il Seicento. E quello che precede l’azione teatrale, qui in questo splendido e minuscolo spazio teatrale, diventa materia riflessiva, ci dispone, come di solito non succede altrove, a quel meccanismo di inveramento di quel che accadrà di lì a un momento, lasciandoci palpitare per un duello di spade (tutto avviene in braccia al pubblico, e la quarta parete in questo caso è veramente una dimensione concettuale, piuttosto che fisica) per una mobilitazione di battaglia o per un passaggio romantico.
La storia è nota e non mette conto di ricordarla se non per sommi capi: l’ha composta proprio alla fine dell’Ottocento Edmond Rostand, in versi alessandrini e il copione originale prevedeva una suddivisione in cinque atti, con una folla di personaggi.
Qui l’adattamento, curato dal protagonista Marco Fasanella (al quale spetta una menzione particolare, oltre che per le già celebrate invenzioni di regia, per la maturità estrosa e superba della sua recitazione) prevede un salutare taglio dell’originale, per contenere il tutto nello spazio di un paio di ore, senza troppa sofferenza per la comprensione complessiva dell’insieme. Per il resto, tutto come nell’autentico: dialoghi dei personaggi vestiti con i forbiti versi, che i personaggi si scambiano con la leggerezza di un parlato di strada, l’inconfessato amore di Cyrano per la bella Rossana (la interpreta con misurata compostezza Virna Zorzan) che compare da una loggetta che sovrasta il piano di palco, laddove Cyrano dà prova delle sue qualità di spadaccino e di fine letterato, vitale e spaccone, temperato nel suo vitalismo dal fido Le Bret (ne veste i panni Valerio Rosati).
Cyrano –si sa- ha una faccenda estetica che gli infiltra l’identità: un naso lungo, brutto, brufoloso che lo inibisce nei rapporti con l’altro sesso, la spasimata platea che avrebbe apprezzato al meglio il suo fine temperamento poetico. Per questo non sopporta chiunque faccia allusioni, anche apparenti o solo percepite, su quel difetto. Lo troviamo al via dell’azione dare prova del suo carattere con l’ineffabile Montfleury (Alessandro Onorati) cui, a colpi di spada, e di rodomontesche intemerate, spezza sul nascere i propositi di derisione. Cyrano ama la cugina Rossana, ma il suo è un amore non solo non ricambiato, ma che non può godere neanche della luce dell’emersione: amerà nel silenzio, per tutta la vita Rossana, che come nelle storie d’appendice che si rispettino, ama un altro, il giovane cadetto Cristiano (Matteo Munari). Ma è qui che il genio di Rostand trova una soluzione per sfuggire all’insidia della corrività: il disperato amore di Cyrano sceglierà di sovrapporsi alle belle sembianze di Cristiano, per continuare ad amare la cugina, suggerendo al giovane cadetto quelle parole d’amore che lui non sa proprio dire, con quella potenza romanticamente devastante che Rossana desidera. Nell’ombra di una notte illune, sotto la loggia di Rossana, Cyrano proverà il brivido di sostituirsi anche in voce al goffo Cristiano, incapace perfino di ripetere le frasi d’amore –impervie per lui- che lui gli sussurra all’orecchio. E’ così che Cyrano consegue il suo paradossale premio: consegnare le labbra di Cristiano al bacio di quella che lui non potrà mai amare. E saprà proteggere il loro amore anche dalle insidie di un altro pretendente, il malvagio conte de Guiche (Giuseppe Renzo). Ma saprà fare anche di più, rispettando la promessa fatta a Rossana: sorvegliare il suo amato Cristiano mentre entrambi partiranno per la guerra, facendo in modo che non fosse la lontananza a dividere il loro amore. Cristiano le scriverà. Ogni giorno. E naturalmente a farlo sarà, tenacemente, Cyrano.
Il pubblico a questo punto è già avviato sulla strada della commozione e il drammatico finale viene gestito da tutto il comparto attoriale con la misura e l’intensità che è la cifra di questo allestimento.
Lo spettacolo è alla quarta stagione di ripresa e ogni volta ha riscosso consensi unanimi, e confidiamo che anche in questo nuovo passaggio sulle scena riesca a far la presa che merita sul pubblico romano.
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