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Immagine del redattoreFabio Salvati

COUS COUS KLAN drammaturgia di Gabriele De Luca

Quale location migliore di una discarica abitata da emarginati per parlare del presente sazio e disperato delle nostre metropoli? È questo il pretesto narrativo di partenza della commedia Cous Cous Klan andata in scena nei giorni scorsi al teatro di Tor Bella Monaca. Una pièce tutta virata al grottesco, con frequenti e pregevoli spunti divertenti, ma imbevuta inesorabilmente nel sale di un cinismo di fondo, che emerge come un effluvio mefitico da quel tipo di ambientazione.

Fatalmente all'apertura del sipario, la sensazione è quella di trovarsi davanti a un'opera dal rimando beckettiano; ma si tratta di un’impressione che subito si risolve, davanti a abbondanze di battute che scolpiscono il mood cinico dell'insieme, non a colpi di silenzio o di gesti e battute ripetute allo stremo (come accade appunto nel Finale di partita) ma con una dialettica veloce e torrenziale, assolutamente densa di un significato dalla presa immediata. Due roulotte fatiscenti si fronteggiano, l'una abitata da una famiglia stravagante composta da tre fratelli, l'altra da un musulmano che si arrangia con il lavoro di ambulante notturno e con lo smaltimento approssimativo e illegale di rifiuti tossici. Tutto avviene in prossimità di un cimitero e di una sorta di riserva per zingari e ben aldilà del recinto perimetrato dove vive la gente perbene e agiata. Di qua dal recinto, nella deriva della metropoli, tutto è consentito. A cominciare dal linguaggio. I personaggi si lanciano in faccia battute sferzanti, irridono le rispettive fragilità, si insultano con il glossario tipico del razzismo, sono scorretti politicamente, e soprattutto, sono disponibili a scannarsi per il bene prezioso che il loro tempo ha ormai isolato come quello raro ed essenziale: l’acqua. Le risorse idriche sono cadute nelle mani di pochi padroni e, sorvegliate da scorte armate, sono al centro di traffici loschi che coinvolgono anche il Vaticano. Anche in quella sentina della disperazione il quotidiano risveglio è scandito dalla ricerca di quella risorsa diventata pregiata e un giacimento di acqua sporca, nascosta sotto la roulotte del musulmano clandestino, diventa metafora del vizio -tutto occidentale- di prelevare risorse dal Terzo mondo, procedere alla distillazione, rivendendo il prodotto finale a caro prezzo proprio agli stessi titolari originari del giacimento. In questo crogiolo folle e sgarbato di anime più o meno viventi, un giorno capita un reduce del mondo ricco: è un pubblicitario caduto in disgrazia, proprio come succede di questi tempi a molti della middle class. La moglie lo ha buttato fuori di casa per via di un tradimento imbarazzante con una minorenne, facendolo scivolare velocemente verso la disperazione del senzatetto. Con la cieca determinazione dell’esiliato, l’uomo farà di tutto per rientrare in quel recinto di provenienza che lui sente suo come ius soli. Ma ne sarà puntualmente respinto e del resto non tarderà ad abituarsi alla sua nuova condizione di emarginato sotto il tetto di lamiera di una vettura sfasciata. Poi la vicenda si impenna (aggrovigliandosi non poco) e abbandona il terreno dello stretto realismo: a entrare in scena è una misteriosa ragazza, che si aggira, nuda, tra l’immondizia di quel campo. La giovane declina a fatica le ragioni della sua presenza: sembra sconvolta da qualcosa di drammatico che le è appena capitato e che le ha interrotto persino i meccanismi della memoria, creandole una nevrosi che la induce continuamente a parlare con un’immaginaria figura che la tormenta (bravissima a incarnare il personaggio è l’attrice Angela Ciaburri). Ma la memoria riaffiora lentamente e svela a tutti che quella nevrosi non è altro che il lascito di una violenza appena subita a opera di due altolocati chierici che trafficano con le reliquie religiose. La ragazza non ci sta a lasciarli impuniti e organizza su due piedi assieme ai suoi nuovi compagni un colpo che scandisca la vendetta sociale contro i porporati che abitano la sponda perbene della città. Il colpo (surreale e vagamente blasfemo) dovrebbe assicurare anche una consistente resa economica ai compartecipi, ma il veleno della conflittualità interna al gruppo si è irrimediabilmente infiltrato e il sogno del riscatto in un attimo sfuma.

A questo punto la pièce va “in crisi di panico”: nello sfumare verso il finale si attorciglia, proponendo più di un epilogo (o come tale percepito dalla sala) fino a quello pensato come autentico, ma non così recepito dal pubblico che esita nell’applauso conclusivo. Forse la vena autoriale ha fatto velo alla regia, ma si tratta indiscutibilmente di una pecca che non riesce comunque ad appannare la fluidità di un allestimento capace di suscitare apprezzamento e consenso non solo per lo spessore del testo, ma anche per le capacità attoriali di un collettivo nel quale spicca la performance di Alessandro Tedeschi che ha dato vita a un personaggio stralunato, alle prese con una fonetica approssimativa, tipica del diversamente abile. Ma data la sfumatura politicamente scorretta della commedia, si può decisamente dire del sordomuto.


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