Rinfoderiamo presto la tentazione di accostare lo spunto narrativo di questa pièce, andata in scena all’Altrove Teatro Studio, alla famosa poesia di Jorge Luis Borges sugli oggetti destinati a sopravviverci.
L’incipit del lavoro porta sulla scena una specie di trovarobe che recupera dalla spazzatura gli oggetti che si incaricano di agglomerarsi, disponendosi ciascuno a portare un proprio retaggio di storia. Il prosieguo – inizialmente su un piano temporale differente – racconta di una giovane impiegata tutta presa dal suo servizio e pronta a indossare una divisa accorsata, come il suo impiego pretenderebbe. Fino alla rivolta esistenziale, dettata proprio dai suoi oggetti, in specie dai vestiari del suo armadio di casa, che trasmetteranno ciascuno una singolare protesta verbale che progressivamente indurrà la ragazza al rifiuto e al ripiegamento verso quel look che più le assomiglia, capace di restituirle l’identità, e che la avvia definitivamente verso l’emancipazione dal suo presente lavorativo, così insignificante.
La scorciatoia surreale che a un certo punto imbocca la narrazione vorrebbe aiutare a dire ciò che non si è sicuri sia emerso già a sufficienza: ma è tutto alla portata dello spettatore anche più disattento e sta tutto dentro l’alienazione servita con buona efficacia dal personaggio di Leda (Patrizia Ciabatta la interpreta con tenerezza e ironia) e dagli aforismi di quel buontempone dell’ambulante/filosofo (Giuseppe Mortelliti) che scorta la narrazione. L’autrice Marina Tiberti cura anche le musiche e la regia di Raffaele Balzano, ligia a seguire la narrazione, pur essenziale, è semplicemente efficace.
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