Regia di Gabriele Lavia
Le occasioni per vedere all’opera un Maestro del teatro italiano si vanno facendo sempre più rare. Per questo si corre senza esitazioni a vedere l’allestimento di Gabriele Lavia, sia pure alla prova di un classico pirandelliano, abbondantemente visto e rivisto: si tratta del famoso “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello. L’aspettativa dei tanti appassionati non è stata affatto tradita perché il lavoro contiene quel tanto di personale che appartiene alla storia e all’identità di scena del grande attore-regista e che quindi rende lo spettacolo unico e originale. Le inserzioni –qua e là- di prelievi da altri scritti di Pirandello rendono l’allestimento magari un po’ verboso e inutilmente ripetitivo, ma il tutto è al servizio dell’idea originale della ripresa, vale a dire valorizzare la centralità dell’elemento femminile come una sorta di pianeta attorno al quale gira invariabilmente l’esistenza dell’uomo consapevole che la sua irrinunciabile dannazione è quella di correre appresso all’universo femminile, rimanendo felice di servirlo anche in quell’assurda commissione dei pacchetti a cui si è andato condannando l’interlocutore del protagonista. La scena (maestosa scenografia) si svolge nella tetra sala d’aspetto di una stazione ferroviaria, laddove il protagonista, condannato da un incurabile “epitelioma” al labbro, spende il proprio tempo sperperandolo negli incontri fugaci con sconosciuti con i quali si intrattiene a parlare di tutto. Sul fondale, una struttura a vetro stile déco lascia intravedere una figura femminile (la disperata moglie del protagonista che lo sorveglia silenziosa) e una locomotiva minacciosa che va e che viene. L’allestimento rinnova anche in chi ben conosce l’opera quel senso di precarietà che Pirandello aveva voluto esprimere attraverso la parabola simbolica dell’uomo al confine della propria vita.
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