Il merito fondamentale di questo tipo di allestimenti, anche nella loro riscrittura e nei tentativi di aggiornamento, è quello di riempire i teatri di ragazzi. La platea dell’Argentina era piena di adolescenti che, per diletto o per mandato dei docenti, erano accorsi a godersi la più importante delle tragedie di Sofocle nella proposta fatta dalla compagnia Tiezzi-Lombardi.
I temi affrontati sono quelli del conflitto tra il diritto naturale (di cui si fa portavoce la sfortunata Antigone, per voler dare sepoltura al fratello Polinice, cadavere proscritto da bando reale) e le tavole della legge umana (imposte alla devozione di tutti, pena il sacrificio della vita in nome dell’equilibrio della polis dal re Creonte). Non a caso – e questo risalta agli occhi contemporanei come un tema di aggiornamento nell’allestimento odierno - il conflitto incrocia il confronto di genere tra l’ostinata eroina e Creonte, declinando due differenti visioni della vita su un terreno contendibile solo a prezzo del sacrificio estremo del soccombente.
La scena si svolge tutta all’interno del palazzo reale di Tebe, sotto le cui mura si sono affrontati a duello, soccombendo entrambi, i due fratelli Polinice ed Eteocle, disputandosi il trono. L’aggiornamento di Tiezzi trasforma l’ambientazione originale in una sorta di morgue, dove monatti di servizio intorno ai cadaveri diventano il coro riflessivo che incalza il re Creonte (con l’efficace sostegno dell’indovino Tiresia, qui declinato al femminile, in versione bizzarra) per indurlo a rivedere il pronunciamento funesto emesso contro la nipote Antigone, rea di essersi adoperata a quel servizio di sepoltura che la pietà richiederebbe e che la legge invece vuole negare. Antigone, eroina fondamentalista, si lascia condannare a una pena terribile, che non le lascerà altra scelta che quella del suicidio, bruciando sul tempo il ripensamento pentito dello zio re. La sua fine scatenerà in un ciclo di maledizione senza fine un’infinità di lutti: l’eroina della tragedia era promessa sposa a Emone, figlio di Creonte, che si darà la morte, così come farà, a catena, la madre Euridice. Sulla tragedia, inevitabilmente, aleggia una sorta di aura di dannazione, verosimile lascito della consapevolezza delle ascendenze incestuose delle protagoniste (figlie, come i fratelli morti, del drammatico connubio di Edipo con la madre/moglie Giocasta), offesa che non poteva essere dimenticata dagli Dei o dal Fato. Letteralmente un bagno di sangue, simbolicamente mondato nell’epilogo da un gruppo salmodiante, che in modalità da operatori ecologici, con tute e lance d’acqua, scrosta il palco dai resti purpurei di una metaforica scena precedente, in cui danzatrici e cantori lanciavano a piene mani getti di polvere rossa.
Proprio il destino sembra essere, tutto sommato, il vero protagonista, il convitato di pietra di questa tragedia: il destino incontrastabile delle due superstiti (Antigone e Ismene) discendenti di un legame maledetto, ma anche il destino del re Creonte, sovrano suo malgrado, figura tutt’altro che tirannica (nonostante la funzione gli imponesse di vigilare con severità sul rispetto delle sue leggi, in nome del primato dell’ordine pubblico), disposto, non solo alla revisione dei suoi comandi, ma anche a ricevere la resipiscenza della nipote, prima di emetterli.
Inutile dire che l’allestimento rincorre fin dal primo momento i toni dell’epicità e l’inseguimento –che passa attraverso soluzioni sceniche di ampio respiro, con suggestivi intermezzi visivi proiettati sullo schermo di proscenio, a simboleggiare la frantumazione dell’epopea classica- è coronato da larghissimo successo, come testimoniato dagli applausi finali di un pubblico che ha reso il consenso a un lavoro in cui il collettivo sul palcoscenico è tutto da elogiare.
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