Appena si apre il sipario si fa giusto in tempo a scorgere una coppia allacciata in effusioni su una poltrona, nell’angolo sinistro del palcoscenico. Il qualcosa di furtivo nella scena viene subito rivelato dall’immediato ricomporsi dei due soggetti. L’uomo, in maniche di camicia e colletto slacciato, è Massimo Ranieri, che subito ci svela il senso di quella furtività: la donna è forse sua madre. O forse no.
Allora cominci a spiegarti il sottotitolo di questa rilettura de Il gabbiano di Cechov: à ma mère. Dobbiamo essere dalle parti di Freud. Ma che siamo dentro un sogno ce lo rivela subito l’innaturale elemento che campeggia al centro della scena: un pianoforte dalla lunghezza inusitata, che non esiste in natura e che trova luogo solo nei sogni, quando, appunto, ci può capitare di trovarci allacciati in effusioni edipiche con nostra madre o a suonare un pianoforte dalle misure ciclopiche. Del resto, lo sguardo d’insieme sulla scenografia, fatta di fughe di quinte nere semiaperte dalle quali spuntano alcuni dei protagonisti del famoso dramma di Cechov, ci confermano nell’impressione iniziale. Siamo dentro un sogno.
Mentre i vari personaggi si dispongono (dopo essere stati presentati per nome da didascalie proiettate sulle quinte) il protagonista, Massimo Ranieri, rimane distaccato, lo sguardo e il dire rivolto al pubblico, da quel consumato attore brechtiano che lui è.
Anche lui a suo modo si dispone sulla scena: ci racconta della sua necessità di declinare in musica una certa sua disposizione malinconica, lascito amaro di carenze affettive assai risalenti. Da qui parte il contrappunto musicale fatto di struggenti canzoni del repertorio francese. Massimo Ranieri le interpreta da quell’esecutore raffinato e appassionato qual è, e da qui si rivela finalmente la struttura di questo macchinoso adattamento: Giancarlo Sepe ha immaginato per la sua personale rilettura l’intrusione di un personaggio, non a caso definito in guisa eponima Il figlio. Questi si confronta (in una dimensione onirica) con quelli del dramma cechoviano (portando le intenzioni dell’adattatore) ma incarna spesso e volentieri la parte di Kostja Treplev, lo scrittore incompreso, in un dualismo sulla scena con il giovane che lo interpreta (il bravissimo Francesco Iacopo Provenzano), evocato a questo punto come un fantasma, visto che il giovane, nel dramma originario, muore suicida, scontando così in un colpo di pistola tutte le sue mancanze.
In questo giuoco di ruoli e confronti, lo chansonnier/figlio non tarda a costringere il suo doppio sulla scena a misurarsi con la maggiore delle carenze: quelle con la madre, la languida attrice Irina Arcadina (ne veste i panni con ottimi risultati Caterina Vertova), che -troppo costipata nel suo ruolo materno per dispensare carezze e consenso al figlio- si trascina sul viale del tramonto con le sue sorpassate pose e sensibilità artistiche, trascinando altresì ai suoi capricci il suo azzimato amante, lo scrittore di successo (lui sì, ulteriore spina nel fianco del povero Kostja) Trigorin, brillantemente interpretato da Pino Tufillaro, disponibile a lasciarsi sedurre dalla giovane Nina (ne veste i panni con estrema efficacia Federica Stefanelli) che, incurante della passione nutrita per lei dal coetaneo Kostja, si propone in imboscate effusive con il maturo scrittore Trigorin, dal quale spera di poter essere instradata sulla via della sospirata carriera artistica.
Completa il panorama delle figure cechoviane Mascia (la interpreta coerentemente nelle pose richieste dalla riscrittura Martina Grilli) qui descritta come una eroina esistenzialista.
Amore, arte e memoria, tutti i capisaldi della drammaturgia di Cechov sono percorsi con soffice naturalezza in questo adattamento, dove a prevalere è la suggestione complessiva creata dall’insieme (un tappeto musicale efficacissimo scorta sempre la narrazione e il disegno di luci perfetto -di Maurizio Fabretti- che regala sempre un’atmosfera sublime).
La categoria della comprensione interviene in differita nello spettatore.
Come nel risveglio da un sogno, appunto.
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