Il palcoscenico del Teatro Arcobaleno ospita, fino a domenica 3 marzo, questa ottima riproposizione dell’ultima delle tragedie scritte da Sofocle.
Oggi la chiameremmo una sorta di spin-off della epopea di partenza intestata a Edipo re: allora quel tipo di serialità fu chiamata il ciclo tebano, ovvero la saga dei Labdacidi in omaggio a una vicenda familiare segnata dalle sventure. In effetti, come si sa, quella storia è costellata di morti e maledizioni, che si impennano dall’iniziale, inconsapevole parricidio compiuto dal giovane Edipo ai danni del re di Tebe Laio, fino all’oscena congiura del destino che lo volle congiungersi nel talamo della vedova di Laio, la madre Giocasta, dalla quale nacquero 4 figli, due maschi e due femmine, trafitti uno per uno da anatema divino per la loro dannata sorgività.
La scena –su un fondale nero che si presta alla versatilità cromatica giocata dalle luci- si manifesta foderata di parallelepipedi e ingombri geometrici senza tempo, a universalizzare e atemporalizzare il racconto, sotto il segno del non luogo.
Sarà quello il luogo dell’azione: appunto Colono, sobborgo di Atene (pare il luogo che diede in natali proprio a Sofocle) laddove si arresta il girovagare forsennato di Edipo), dopo la mutilazione oculare che si era autoinferto per la consapevolezza del suo peccato incestuoso –inconsapevole, ma non per questo esonerabile da sanzione. (inutile dire che la prova maiuscola di Giuseppe Pambieri nel ruolo ci regala una rinfrancante misura d’Attore)
Il suo vagare cieco è scortato amorevolmente dalla figlia Antigone (ne veste i panni con efficacia Micol Pambieri). Il sopraggiungere della sconosciuta coppia richiama le genti del posto (il coro nella veste originaria è qui simboleggiata da una autoctona, interpretata da Elisabetta Arosio) pronte ad opporre l’iniziale, immancabile ostilità indigena. Ma basterà il riepilogo delle vicissitudini di Edipo che Antigone rende alla gente di là, per trasformare quella resistenza di esordio in un abbrivio di condivisione che diventerà ben presto cifra di ospitalità nelle parole del sovrano Teseo (bravissimo Gianluigi Fogacci nella sua quieta e composta versione del personaggio).
E’ da qui che si avverte la sostanza universale della trama narrativa, capace di parlare ai contemporanei, alludendo alle medesime contese sul tema della sacralità del proprio dovere di accoglienza dello straniero, che incomberebbe sull’umanità, in disparte dalle loro emarginazioni confinarie. Ma i temi della partitura sono numerosi, laddove si avverte anche che si tratta di un’opera scritta nella stagione declinante di Sofocle: c’è, prepotente, il tema della morte, della caducità delle passioni umane, il tema dei ricordi che si appendono in uno sguardo di rimpianto sulla meraviglia della natura.
Ma siamo pur sempre nella tragedia che si nutre della materia del conflitto (meglio se funesto) e lo spazio per il trastullo meditativo o per i sentimenti positivi è necessariamente limitato: ecco che al seguito di Edipo e di Antigone arriva ad Atene anche l’altra figlia Ismene (ieratica e fascinosa l’interpretazione di Melania Fiore) per reclamare il ritorno del padre nella avita Tebe, dove gli altri due fratelli Polinice e Eteocle si stanno logorando in un conflitto senza requie per la conquista del potere, in balìa anche della protervia del reggente abusivo Creonte, (fratello della defunta Giocasta). L’interpretazione resa da Roberto Baldassarri è energica quanto serve e tracotante quanto basta, al servizio efficace del personaggio di Creonte, convenuto nel sobborgo ateniese per indurre Edipo a fare rientro in patria in nome dell’esigenza tutta politica di porre argine alla deriva cittadina ripudiata dagli dei per tutte le sventure e le nefandezze che il ciclo vitale di Edipo ha ora il dovere di sanare. Al rifiuto di quest’ultimo, Creonte il prepotente cercherà di ghermire come ostaggi le due figlie, ma l’intervento –in modalità questa volta vigorosa – del principe Teseo salverà la situazione, mettendo in fuga Creonte.
La maschera tragica di Edipo potrebbe veder arrestata qui la tappa ateniese del suo girovagare, ma c’è ancora spazio per una breve incursione del figlio Polinice (ne veste i panni il giovane Vinicio Argirò). E’ la visita che fa più male al protagonista, perché obbliga il vecchio re a un anatema di troppo nella sua tribolata esistenza: di fronte all’intrecciarsi bellicoso delle sue rivendicazioni rispetto alle pretese del fratello Eteocle (sembra di sentire qualcosa di simile ai bollettini di guerra che ogni giorno, da un paio d’anni nella contesa fratricida russo-ucraina, riempiono quotidianamente i nostri notiziari… ) non gli resta che spargere l’ultima maledizione sull’uno e sull’altro, prima di abbandonarsi alla sua fine terrena, assunto in cielo nel boschetto delle Eumenidi, misera vestigia mortale tumulata in un inaccostabile sepolcro, a garanzia di salvaguardia della città di Atene, che l’aveva accolto con immensa benevolenza. La serata di venerdì 1° marzo ha visto il forfait di Luigi Mezzanotte che doveva interpretare il personaggio del corifeo. Lo spettacolo non ne ha minimamente risentito e a lui –che è un attore di grande prestigio- i migliori auguri per una pronta ripresa.
L’adattamento e la regia di Giuseppe Argirò si segnalano in positivo per l’attualizzazione della partitura e per la scelta di luci e del vestito scenico, che lascia desolatamente intravedere dentro la sua apparenza neutra i profili di una certa, insistita contemporaneità.
Da segnalare infine che i due giovani attori Micol Pambieri e Vinicio Argirò sono stati insigniti per le rispettive interpretazioni del prestigioso Premio Franco Enriquez edizione corrente.
Costumi Emiliano Sicuro, Sartoria Sorelle Rinaldi – Scene Claudio Cutisposto
Luci Andrea Chiavaro.
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